Lo scorso venerdì 14 settembre è salito al Padre don Sergio Mantovani. L'omelia del vescovo Castellucci al funerale nella "sua" Santa Caterina

“Ciao don Sergio, sorriso di nonno e di fanciullo”

“Arrivederci a presto, don Sergio”. Così l’ho salutato alcuni giorni fa, dopo un breve colloquio in ospedale. La sua risposta, pronta, è stata quella di indicare con la mano il Crocifisso di fronte a lui e dirmi con il suo velato sorriso: “sì, da Lui”. E Lui, il Crocifisso, lo ha chiamato proprio agli sgoccioli della Festa dell’Esaltazione della Croce, alla quale questa Chiesa è dedicata. Coincidenze che sono come una carezza di Dio su don Sergio e su di noi.

Una bella figura umana e sacerdotale; un padre per moltissimi dei presenti; un fratello premuroso, arguto, pieno di vita. Un uomo felice e realizzato; un credente solido e affidato totalmente al Signore. “Io sono pronto”, diceva in questi giorni, consapevole della prossimità del grande viaggio e appagato dall’immenso affetto dei suoi parrocchiani e di tanti, parenti e amici, che lo cullavano anche da lontano. Quando sono uscito dalla sua stanza ho pensato: “vorrei che il Signore mi concedesse di morire così”.

Ma se il supremo traguardo don Sergio lo ha raggiunto in questo modo, quasi adagiato sulla croce di Gesù come un bambino nel grembo della madre, è perché la sua vita è stata una ricerca continua del Signore. Altri ne ricorderanno le tappe principali della vita, alla fine della Messa; e molti ne parlano in questi giorni come del “prete della Ferrari” o di “don Ruspa”; aspetti, del resto, molto importanti della sua esistenza. Io vorrei solo mettere in  evidenza un dono interiore di don Sergio: la fiducia completa nel Signore. L’ho conosciuto poco più di tre anni fa quando, alcuni giorni dopo la mia nomina, lo incontrai a Sant’Anna ai Torrazzi per festeggiare il giubileo sacerdotale di don Enzo. In quell’occasione, oltre naturalmente a regalarmi due portachiavi della Ferrari, si presentò come “un prete vecchio, peccatore e contento”. Il suo sorriso bonario, le sue frasi disarmanti e i suoi frequenti scivolamenti sul dialetto me lo fecero apparire piacevolmente come una via di mezzo tra un nonno e un bambino.

Da allora l’ho incontrato diverse volte, rinnovando questa prima impressione. E i nostri dialoghi iniziavano quasi sempre, come la Messa, da una sua specie di atto penitenziale: “mi perdoni, sono un peccatore”. Del resto lo diceva a tutti: lo stesso Enzo Ferrari, in un biglietto in cui lo ringraziava per gli auguri di compleanno, gli si rivolse con un “caro peccatore”. La vita gli aveva riservato due esperienze anticipatrici della morte. La prima, quando era ancora seminarista adolescente a Nonantola e si ammalò di tubercolosi, facendo temere il peggio: gli avevano dato poche settimane di vita. La seconda, trent’anni fa, quando si offrì come mediatore-ostaggio in Sardegna nel rapimento dell’imprenditore Giulio De Angelis, papà del pilota Elio morto due anni prima per incidente. Don Sergio mi raccontò in dettaglio, su mia richiesta, questa forte esperienza, ribadendo che anche in quell’occasione il Signore gli aveva dato la forza di dichiarare, davanti ai mitra carichi dei rapitori, la sua prontezza a lasciare questa vita terrena.

L’esperienza di cappellano del lavoro – fu in questa veste che, introdotto da don Galasso, entrò nel mondo delle case automobilistiche – e soprattutto la lunga esperienza di parroco, lo portarono a contatto con i momenti più gioiosi e quelli più dolorosi dell’esistenza umana. Più che sui discorsi, allora, puntava sulla presenza: un sorriso, una preghiera, un abbraccio, una carezza, esprimevano tutto. La gente sapeva che lui c’era e gli era grata per questo. Negli ultimi giorni, quando si è sparsa la notizia delle sue gravi condizioni di salute, si sono intensificate le visite – pur giustamente regolamentate – anche da parte di persone che non lo vedevano da tempo, ma che volevano esprimergli riconoscenza per la sua presenza discreta in qualche circostanza forte della vita.

E don Sergio “c’era” non per un senso del dovere e nemmeno per una semplice umana compassione; c’era perché voleva portare quel raggio di umanità e di fede che solo Cristo sa dare, rendendo più belli e profondi i momenti di gioia e più sopportabili le esperienze di dolore. Era proprio la logica della croce, da lui così amata, che don Sergio abbracciava e testimoniava. La croce come luogo di sofferenza e speranza insieme, di fatica e di condivisione.

Caro don Sergio, hai avuto ragione: “arrivederci a presto… da Lui”. Adesso sei davvero in quella “Casa del Sole e della Gioia” di cui hai voluto un piccolo anticipo qui in terra. Grazie per la tua umanità, grazie anche per i difetti che non nascondevi e anzi confessavi pubblicamente; ma grazie soprattutto per la tua passione pastorale, la tua testimonianza evangelica e il tuo affetto di padre, di nonno e di fanciullo.