Croce di Lampedusa: dove comincia la storia?

A Lampedusa il 3 ottobre 2013, una data che ancor oggi ci aiuta per andare insieme alla ricerca di qualcosa. Dove il mare si è preso certe vite. 366 volte in tutto, alle prime luci del mattino a un miglio a sud dall’isola più remota di Sicilia, fra quei luoghi che la geografia ha creato in modo che possa sembrare quel che è: “dove il mare finisce”.
 
Ma forse questa storia comincia molto più lontano. Oltre i confini dell’Europa e della linea ideale che delimita lo “spazio Shengen”. Una convenzione tra nazioni che prende il nome da un paesino in Lussemburgo, grande più o meno come Lampedusa, ma in montagna. Per cui o di qua o di là. tutto ciò che ne sta di qua appartiene a un mondo, e ciò che ne sta al di là appartiene ad un altro mondo. Sembra incredibile, ma, dalla caduta del muro di Berlino ad oggi sono triplicati i muri che dividono artificialmente il nostro mondo. Blocchi di cemento, reti spinate, fossati che impediscono non solo il passaggio di persone da una parte all’altra del globo, ma anche ogni tipo di comunicazione e condivisione umana e culturale.
 
L’altro mondo sta a sud, sempre a sud. Oltre il deserto, oltre Agadez ad ovest a cinquanta giorni di camion. A Khartoum in Sudan, oltre 2000 km ad est. A Kufra in Cirenaica, un’oasi a sei giorni di auto da Bengasi. In mezzo al deserto libico. Lì a Kufra cominciano i “viaggi della speranza”. Dove i muri sono pieni di scritte come un quaderno. E lì la gente non c’è la fa a tornare indietro. Lì puoi comperare un uomo per strada. Poi c’è chi scappa dalla guerra.
 
La mattina dell’11 ottobre 2013 Francesco Tuccio cittadino lampedusano era sulla spiaggia. Non gli era mai capitato di pescare uomini ma “ammareddi”, da bambino, come li chiamano a Palermo i gamberetti. Quella mattina c’erano i resti e il fasciame di quelle barche: le “carrette del mare”. “Sembravano come certi vecchi con epidermidi segnate dal tempo e da rughe profonde, con mani rigonfie o consunte dalle fatiche del quotidiano o dagli stenti di sempre; pezzenti e mendicanti, laceri, sporchi, inavvicinabili”. Così sono nate le “croci dei migranti”, sull’affollato scenario della vita, della realtà d’ogni giorno.
 
Così è stata fatta la “Croce di Lampedusa”. Quella mattina. Così “siamo consegnati a quello che creiamo e finiamo per coincidere con quello che creiamo”. Così arriviamo alla nostra storia. E’ quella che comincia il 9 aprile 2014 in piazza san Pietro a Roma, davanti a un altro Francesco. «Portatela ovunque» sono state le parole del Papa. E così hanno fatto quelli della Fondazione di Milano. Quelli della Casa dello Spirito e delle Arti.
 
Da allora la “Croce di Lampedusa” e le altre “croci dei migranti” cominciano a perdersi un po’ in giro. Cominciano a camminare al contrario, controcorrente, un po’ come fanno i ragazzi, un po’ come i gamberi di Lampedusa. Viaggiano per l’Italia su e giù, avanti e indietro, un Grand Tour e attraversano ancora un altro mare. Una arriva a Londra al British Museum; “Croce di legno di tipo latino fatto da pezzi di una barca che naufragò al largo della costa di Lampedusa, Italia, in data 11 ottobre 2013. I pezzi verticali ed orizzontali sono uniti con un giunto dimezzato a croce. La traversa conserva scrostate vernice blu sulla superficie anteriore, superiore e inferiore… Un frammento di un chiodo di ferro sopravvive nella parte superiore, nella parte destra della traversa. La parte posteriore della traversa è firmato F. Tuccio, Lampedusa”.
 
L’altra arriva fino a noi, questo 3 ottobre 2016, ricorrenza di quel naufragio: “Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione”, istituita con la Legge 21 Marzo 2016, n.45.
 
Quasi una liberazione.
 
Noi non abbiamo vissuto in prima persona questi accadimenti. In un qualche modo abbiamo cercato di farcene un’idea attraverso lo studio, inventando qualche storiella. Di quegli accadimenti ci siamo fatti un’idea precisa, come di quelle sofferenze, come del dolore. Ma queste sofferenze e tutto questo dolore, come il lutto, sono solo di chi le ha vissute. E per quanto ci sforziamo di comprendere, o piangiamo, difficilmente potremo affermare di averle comprese davvero. Perché certe vite sono solo di chi le ha vissute. Così quello che possiamo fare è prepararci al meglio. Non per mitigare in noi gli effetti di questo abominio: i suoni profondi del silenzio e le tante parole ancora non ci concedono di abbandonare le paure del mondo e del nostro tempo.
 
Alla fine di ogni viaggio avviene sempre un incontro. A quell’incontro ci siamo preparati. Così ci siamo sdraiati nell’erba, c’era solo il cielo sopra di noi.
 
E la libertà dell’immaginazione.
 
 
Nota dei curatori alla mostra