La relazione del Vescovo Erio Castellucci alla Tre giorni diocesana 2019 sul tema dell’iniziazione cristiana

Iniziare alla fede: una sfida per tutti

Comincio con i ringraziamenti, che non sono mai «di rito», ma sempre «di riconoscenza».

Quest’anno in modo particolare esprimo molta gratitudine verso tutti voi, per una partecipazione ampia e intensa. Grazie per il coinvolgimento e la passione con la quale avete seguito la Tre giorni pastorale. Grazie agli organizzatori, in modo particolare all’Ufficio catechistico diocesano; ai relatori, sia al diacono Marcello (Musacchi, direttore dell’Ufficio catechistico diocesano di Ferrara, ndr) che ai biblisti e ai coordinatori dei quattro seminari. Ieri ho incontrato per un paio d’ore i componenti dell’Ufficio catechistico che prestavano servizio come segretari dei gruppi e ho potuto ascoltare, con molto interesse, gli echi positivi, gioiosi e propositivi dei lavori. Ne tengo conto nella presente relazione, che in buona parte è debitrice alle risposte pervenute dalle 22 parrocchie della diocesi, già sintetizzate da Gabriella (Romano, coordinatrice Ufficio catechistico diocesano, ndr) l’altro ieri, alla relazione di Marcello e ai confronti svoltisi nei seminari. Mi è stato utile anche quanto è emerso in altri momenti, diocesani ed extradiocesani: penso in particolare al consiglio presbiterale e al consiglio pastorale, oltre che alla commissione episcopale e alla consulta nazionale per la catechesi. Quindi se trovate delle frasi già sentite o dette da qualcuno di voi, non accusatemi di plagio. In altre parole, non c’è molta farina del mio sacco.

Collaboratori di Dio, degli evangelizzatori, della comunità
La prospettiva nella quale vorrei che ci ponessimo, alla vigilia della Pentecoste, è quella dell’ascolto dello Spirito. È proprio lo Spirito il protagonista dell’evangelizzazione, come ha ricordato con forza San Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris Missio (1990). E noi, allora, chi siamo? Se non siamo noi i protagonisti della missione, non ne siamo però nemmeno dei semplici strumenti inerti, come la penna in mano allo scrittore o il flauto in bocca al musicista. Il Signore non ci vuole rendere dei semplici ripetitori, quasi dei burattini; l’evangelizzazione non è uno spettacolo dei Muppet Show, dove dovremmo solo muovere la bocca e le mani e tutto il resto lo fa lo Spirito. No, ci vuole vivi e coinvolti.

Che ruolo abbiamo dunque nell’annuncio del Vangelo? San Paolo, che se ne intendeva, usa una parola molto ardita: dice che gli evangelizzatori sono «collaboratori di Dio» (1 Cor 3,9). Ha appena parlato del suo servizio e di quello di Apollo verso la comunità dei Corinti, dicendo: «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere» (1 Cor 3,6). Con questa immagine agricola, che richiama il giardinaggio, Paolo suggerisce che la collaborazione degli apostoli sta ad un livello più basso di quello del Signore. Paolo ha dato il primo annuncio («ho piantato»), Apollo ha rafforzato in seguito la predicazione («ha irrigato») ma il miracolo di «far crescere» è riservato a Dio; al Signore spetta il segreto della fecondità di una comunità cristiana.

Certo, la parola che Paolo usa è forte, synergói, letteralmente sono «coloro che lavorano insieme», i colleghi. Ma dire «collega» sarebbe poco, perché potrebbero esistere anche persone che fanno lo stesso lavoro ma non proprio insieme, come due impiegati arrabbiati tra loro che occupino lo stesso ufficio; i «synergói», invece, sono quelli che mettono insieme le forze per un medesimo scopo, buono o cattivo; nell’uso classico infatti indica anche il «complice». Ma Paolo usa questa parola per indicare non solo la nostra collaborazione con Dio, ma anche l’équipe degli annunciatori. Così, ad esempio, Priscilla e Aquila (Rom 16,3); Timoteo (Rom 16,21), Marco, Aristarco, Dema e Luca (Fil 1,23–24) sono chiamati espressamente da Paolo suoi synergói. In realtà nelle sue lettere nomina almeno quaranta collaboratori; alcuni dei quali non resistono ai suoi ritmi e al suo carattere e in qualche momento ne approfittano per ritirarsi. Comunque sia, Paolo non annuncia da solo, ma in équipe. E anche quando fisicamente è solo, parlando del suo ministero apostolico usa sempre il «noi», per far capire che si sente dentro ad una squadra.

Esiste infine una terza applicazione paolina della parola «collaboratore», che mi è molto cara da quando, negli anni di Seminario, l’ho scoperta. E che mi venne in mente quattro anni fa, nel momento in cui il vescovo Lino (Pizzi, ndr) – eravamo a fine maggio 2015 ed era già stata pronunciata la sentenza di nomina su di me e su di voi, anche se eravate ancora felicemente ignari – dopo avermi fatto leggere un lungo testo latino di accettazione della nomina e avermi costretto, o forse è meglio dire invitato, a firmare, mi chiese: «quale motto hai scelto?». Preso alla sprovvista, me ne venne in mente uno forse non molto adatto per uno stemma episcopale: «chi fa da sé fa per tre». Ma non glielo dissi. Stavo invece per dirgli, memore della mia appartenenza scoutistica: «estote parati». Ma per fortuna mi è invece saltato in mente il versetto tratto dalla Seconda lettera ai Corinzi (2 Cor 1,24): «Siamo i collaboratori della vostra gioia». Dove c’è proprio la parola synergói. Il versetto intero recita così: «Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete già saldi». La contrapposizione tra «fare da padroni» e «collaborare» la dice lunga sull’idea paolina del ministero.

«Fare da padroni», qui, è kyrieuomen, un verbo che contiene la parola kyrios, Signore. Letteralmente quindi, è «signoreggiare», contrapposto a «collaborare». L’apostolo non si sente affatto la sorgente della fede della comunità, che anzi, dice, è già salda.

Lui non si mette sopra, ma a fianco, come «collaboratore». Ecco i tre significati: collaboratori di Dio, degli altri annunciatori e di tutti i battezzati.

Prendere avvio da questa prospettiva ci mette pace. Non la falsa pace di chi sente a posto, ma la vera pace di chi sa di porsi al servizio di uno che ha le idee chiare, lo Spirito Santo. Noi non possiamo, propriamente, trasmettere la fede, come qualche volta si sente dire in modo impreciso: la fede è dono, la accende lo Spirito, incontrando la libera disponibilità delle persone. Noi possiamo e, anzi, dovremmo testimoniare la bellezza di credere. Se qualcosa trasmettiamo, sono alcune condizioni per credere: dare, cioè, agli altri la possibilità effettiva di fare spazio nel loro cuore per accogliere il germe della fede. È una prospettiva che ci rende molto umili, ma anche pieni di speranza e di entusiasmo. È una prospettiva che ci libera interiormente dall’ansia dei risultati, dalla quantificazione dei successi seguita dalla depressione per i fallimenti, e ci pone nell’atteggiamento di chi mette a servizio, semplicemente, se stesso. Poi è Dio che fa crescere.

Fatta questa lunga premessa, che però mi pare essenziale per evitare l’affanno pastorale e le facili ricette, passo ad un’altra immagine. È meno immediata e meno poetica di quella del giardino; è anche in un certo senso pericolosa, man mano che ci avviciniamo all’ora di pranzo. È l’immagine della torta, alla quale vorrei paragonare l’esperienza cristiana. La utilizzo solo oggi e prometto di non inserirla nella Lettera pastorale, che dovrà avere un tono più serio. L’immagine è questa: pensando all’iniziazione cristiana come processo di preparazione di una torta, possiamo giocare sui cuochi e i camerieri, sugli ingredienti, il dosaggio e gli strumenti (stoviglie, casalinghi). Precisando che, pur riferendomi direttamente all’iniziazione cristiana dei bambini e dei ragazzi, sui quali in questi giorni stiamo puntando l’attenzione, terrò ben presenti anche gli adulti, sia quelli che si accostano o riaccostano alla fede percorrendo alcune tappe dell’iniziazione cristiana, sia quelli che si possono coinvolgere nel processo di formazione catechistica dei piccoli.

L’équipe dei cuochi e dei camerieri.

La comunità educante
Da quasi cinquant’anni – il primo documento–baseper la catechesi in Italia è del 1970 – diciamo e ripetiamo, giustamente, che il soggetto dell’annuncio della fede è l’intera comunità cristiana. Potrebbe sembrare astratto dire che è l’intera comunità ad educare alla fede, perché poi ci serviamo comunque di persone dedicate; ma forse dobbiamo impegnarci ad abbattere la figura del catechista specializzato.

Non intendo ovviamente eliminare questa figura, ma moltiplicarla: o meglio, diventare coscienti che di fatto, lo si voglia o no, la persona che viene iniziata alla fede riceve la testimonianza da una pluralità di figure educatrici nella comunità: i pastori, i diaconi, i ministri, i laici impegnati nei vari ambiti, le persone consacrate, tutti educano alla fede, ciascuno secondo le proprie caratteristiche, non solo il catechista, ma anche l’animatore della liturgia e del coro, il lettore e il ministro della comunione, il capo scout e l’educatore di Azione Cattolica, i responsabili dell’oratorio e del doposcuola, l’allenatore, gli operatori Caritas, ma anche i malati ai quali fare visita, i poveri, le persone fragili e provate che grazie a Dio non mancano di frequentare le nostre parrocchie.

L’esperienza cristiana, per chi vi si affaccia – bimbo, ragazzo o adulto che sia – ha il volto stesso della comunità cristiana. È nel contatto vivo con la comunità cristiana che le persone iniziate alla fede possono ricevere questa testimonianza, possono vedere nei fatti come la fede renda più vivi, attivi risorse altrimenti sopite, susciti relazioni autentiche.

Pensando a comunità talvolta smorte, colpite da invidie e rivalità, occupate da alcuni che si ritagliano dei piccoli feudi, comprendiamo ancora meglio quale sia la responsabilità della comunità cristiana nel processo della catechesi, intesa non come trasmissione di nozioni, ma come vera e propria iniziazione, esperienza integrale. Non basta avere «bravi catechisti», perché è di fatto la comunità intera ad avere un impatto, nel bene e nel male, sulla vita di fede delle persone che la stanno scoprendo. E non pensiamo che i bimbi, ad esempio, non si rendano conto del clima di una comunità: lo vedono benissimo, lo respirano, come respirano perfettamente il clima della loro famiglia.

I cuochi e i camerieri, quindi, sono tutti coloro che nella comunità parrocchiale svolgono compiti educativi: sono loro a confezionare la torta. Siamo così al punto centrale: come è composta questa torta? Quali sono gli ingredienti dell’esperienza cristiana?

Gli ingredienti della torta.

Elementi fondamentali dell’esperienza cristiana
Gli ingredienti di questa ricetta sono tutti nel Nuovo Testamento, nell’esperienza delle prime comunità cristiane. Prendo solo uno tra i tanti testi possibili: il brano del Vangelo di Luca sui discepoli di Emmaus (Lc 24,13–35). Non lo commento: è una pagina nota e «sintetica», nella quale Luca mette in fila tutti gli ingredienti della vita cristiana. Nella scena di Emmaus ne incontriamo sei: il cammino, la parola, l’accoglienza, la preghiera, il gesto di spezzare il pane, la missione. Potremmo considerare molti altri testi, come Atti 2 e 4 (i «sommari» della comunità di Gerusalemme) e tanti passi delle lettere paoline. Ma basta Emmaus, che ci fa capire come tutto parta dall’eucaristia e tutto vi ritorni. Luca narra infatti l’incontro dei due discepoli una cinquantina d’anni dopo l’evento e lo fa, come sempre fanno gli evangelisti, intrecciandovi l’esperienza delle comunità cristiane.

Quell’incontro ispira la struttura della celebrazione eucaristica; e, a sua volta, è riletto attraverso l’esperienza delle prime comunità. È quindi un racconto pasquale che viene riletto alla luce della vita ecclesiale.

Il primo ingrediente è il cammino.

Quello dei due discepoli, smarriti e sfiduciati, che girano le spalle a Gerusalemme e tornano al loro villaggio originario; e quello di Gesù, che li raggiunge e si mette al loro passo. L’iniziazione cristiana è un percorso, non una semplice «lezione». Il diacono Filippo cammina (cf. At 8), Paolo viaggia in lungo e in largo. Ma è Gesù che ha cominciato con questo stile: «vieni e seguimi!», non «vieni e siediti!».

L’educatore, come Gesù, non aspetta a Gerusalemme e non ha paura di andare in direzione inversa alla città santa, di inoltrarsi sul percorso della vita quotidiana, spesso fatta di smarrimento e sfiducia, perdita dell’orientamento e nostalgia del passato. La delusione dei due discepoli, dopo il primo annuncio della risurrezione – «alcune donne ci hanno detto che è vivo… ma sono passati tre giorni…» – è la delusione di tanti, che girano le spalle alla fede pasquale. C’è bisogno di un secondo annuncio, di chi si metta proprio su quei passi incerti. Gesù non forza il loro passo, ma «si avvicinò e camminava con loro»: non li invita a tornare indietro e nemmeno accelera il ritmo del cammino. Senza unirsi alle loro lamentazioni, vi si innesta e li accompagna. Gesù non ha l’ansia di portare subito alla meta, ma ha la cura di accompagnare il percorso.

Uno stile di catechesi e di annuncio «ambulante» è ormai richiesto oggi; uno stile molto più difficile di quello cattedratico, statico, che chiede una preparazione culturale sufficiente ma non la fatica di mettersi in viaggio. E se una cattedra ci vuole, come vedremo, è una cattedra con le ruote.

Il secondo ingrediente è la parola.

Gesù non attacca il discorso con una risposta, ma con una domanda: «che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». E poi li lascia parlare a lungo, prima di rispondere e annunciare la sua risurrezione secondo le Scritture.

Gesù non ha l’ansia di dare subito la risposta, ma ha la cura di coltivare la domanda. E, di nuovo, è molto più difficile per l’educatore imparare ad ascoltare e innestare l’annuncio sul racconto dell’altro, che non proporre subito la propria risposta. A volte le nostre risposte non incidono, perché non incontrano le fatiche e le attese altrui. Il fatto che Gesù annunci la Pasqua, vada al nocciolo della questione che è ilkerygma, indica una gerarchia delle verità nell’iniziazione cristiana. Come scrive papa Francesco nella Evangelii Gaudium,occorre riportare l’annuncio al suo nocciolo, l’incontro con Gesù morto e risorto, e di lì dedurre anche gli altri contenuti della fede e le esigenze della vita morale. Papa Bergoglio cita spesso questo passaggio della prima enciclica di papa Ratzinger: «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva». In una cultura frammentata e pluralista, l’insistenza sugli aspetti derivati, senza l’aggancio al nucleo, rischia di apparire campata per aria e retrograda e di provocare rifiuto anziché interesse. La presentazione completa delle verità cristiane e delle implicazioni etiche derivanti è necessaria, richiede pazienza e va fatta curando sempre il legame con l’evento di Gesù.

L’antropologia cristiana deve essere testimoniata e comunicata, anche attraverso esperienze significative: tutto ciò che riguarda la vita umana, la famiglia, l’educazione, la pace, la giustizia e il rispetto per il creato fa parte dell’annuncio cristiano; ma potrà incidere davvero se risulterà innestato nel mistero pasquale di Gesù e derivante da esso. Il richiamo alla «legge naturale», che pure esiste e va portata avanti, da solo non è più capace di fare breccia. Se Gesù, ad esempio, avesse propinato ai due discepoli una predica sulle virtù della costanza e della fortezza, anziché annunciare la Pasqua, probabilmente lo avrebbero salutato.

E invece – terzo ingrediente – lo pregano di restare con loro: «resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». L’ascolto di quell’uomo, che ha detto parole vere e incisive, suscita il desiderio di stare con lui. Si fa sera, ormai, e non solo nel cielo, ma anche nel cuore. Perché spesso si fa sera dentro di noi e nasce il timore della notte. Allora ci rivolgiamo all’unico che può dare un senso anche al nostro buio. La preghiera è un altro ingrediente dell’esperienza cristiana, molto più diffuso di quanto possa sembrare.

Incontrando tante persone nelle loro case, specialmente in occasione delle benedizioni annuali o della visita ai malati, ho notato costantemente che sono molte di più le persone che pregano di quelle che vengono a Messa. Fino ad un anziano comunista che aveva accostato l’immagine di Lenin a quella di padre Pio, che mi disse che alla sera recitava un Pater Ave Gloria a tutti e due. La preghiera fa parte dell’uomo, esprime la sua creaturalità, quel senso del limite e della dipendenza che soprattutto alla sera, e alla sera della vita, si risveglia. Purtroppo oggi, come sappiamo, difficilmente sono le famiglie ad insegnare la preghiera. Ma una bella esperienza di preghiera nel percorso di iniziazione – non troppo lunga e noiosa, ma breve e gioiosa – si imprime nell’animo dei bambini e dei ragazzi e a volte la fa riscoprire anche agli adulti. L’educazione al canto liturgico e religioso aiuta ritrovare la profondità della preghiera, come pure l’educazione a leggere le immagini sacre e le opere d’arte cristiana, spesso pensate e realizzate proprio nel contesto della liturgia e della preghiera; o anche l’educazione a vivere la preghiera nella forma del teatro e della danza.

Ma chi era colui al quale i due avevano chiesto di restare con loro?

Non sapevano ancora che fosse Gesù. L’unica definizione che ne avevano dato, appena li aveva accostati, era questa: «solo tu sei forestiero a Gerusalemme!». Luca usa qui il verbo paroikeo, dicendo a Gesù letteralmente «solo tu sei parroco». Ma certamente Cleopa non ha scambiato Gesù per il parroco di Gerusalemme. Piuttosto il verbo indica uno che vive da straniero, che abita in un altro paese come forestiero. Dunque invitano un forestiero, uno straniero a rimanere con loro. Ecco il quarto ingrediente dell’iniziazione cristiana: l’accoglienza. I due discepoli aggiungono un posto a tavola. Non hanno paura di allargare lo spazio della loro casa, non si barricano dietro alla loro porta. Hanno intuito, sentendo parlare Gesù, che quello straniero può solo arricchire la loro vita. Hanno capito, senza forse averlo sentito direttamente da Gesù, quello che aveva detto alla fine del Vangelo di Matteo: «ero straniero e mi avete accolto». L’esperienza dell’essere accolti e dell’accogliere è uno degli elementi fondamentali dell’iniziazione. Molti di quegli adulti che si accostano o riaccostano alla fede – con una parola non felicissima sono chiamati «i ricomincianti» – lo fanno perché si sono sentiti accolti e non respinti, accompagnati e non giudicati, presi per mano e non segnati a dito. Se è possibile ottenere qualcosa da chi ci appare più lontano dall’esperienza cristiana, non è certamente etichettandolo, ma accompagnandolo. La stessa cosa vale per i piccoli: la parrocchia deve essere la loro seconda casa, sopportando anche qualche pianto a Messa o qualche urlo di troppo in canonica. Ma soprattutto vanno aiutati a scoprire, nel cammino di iniziazione, il senso del servizio verso chi è svantaggiato. Nei laboratori di giovedì sono emerse più volte queste situazioni ed è stata narrata la pratica di non lasciare all’ultimo posto anche nella Chiesa chi lo è già nella società. Ho già avuto modo di dire come ciò che mi è più rimasto impresso nella formazione catechistica infantile, da parte di un parroco non certo al passo con i tempi, sia stata la sua cura di farci vivere esperienze di servizio verso le persone meno fortunate, più povere e più marginali. Ci portava ad incontrare i malati e gli anziani nelle case e i bimbi disabili nelle strutture o nelle famiglie. Esperienze di servizio e di carità proporzionate all’età dei bambini, sulle quali poi riflettere insieme, sono iniziazione cristiana allo stato puro.

A tavola, terminato finalmente quel cammino di 11 chilometri, «prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero». Gesù si fa riconoscere nel gesto di spezzare il pane, nel rito eucaristico. È questo il focus dell’episodio, il momento di svolta, il perno che rovescia tutta la scena e la rende nuovamente dinamica, rimettendo in moto i due discepoli.

Strano che fino ad allora non l’avessero riconosciuto. Ma evidentemente Gesù si riconosce pienamente solo quando si presenta nella forma del dono, solo quando si fa pane, solo quando – per così dire – si sbriciola per noi. L’esito del cammino di Gesù è il suo offrirsi: questa è per lui la meta; e infatti sparisce. Non aspetta nemmeno che loro credano, che professino la fede.

Lui ha terminato il suo annuncio, che è diventato pane spezzato. Il traguardo dell’educatore cristiano è che la parola diventi pane, che i discorsi lascino spazio alla vita, che il dialogo diventi testimonianza.

Quando parla la sua vita, l’educatore ha davvero dato tutto. Si vede bene che «il catechista» o «la catechista» non è una figura solitaria, ma una pluralità di figure: chi può offrire da solo una testimonianza «completa»?

Fa parte dell’iniziazione cristiana l’incontro con tante testimonianze, a partire naturalmente dalla vita di Gesù, che occorre saper narrare ai bambini. E poi le testimonianze dei santi e degli amici di Dio, le testimonianze dirette di persone viventi che nel loro quotidiano – e senza eroismi o miracolismi – cercano di vivere la fede, le testimonianze di luoghi e fatti che «parlano» di Vangelo. Ciascuna parrocchia e ciascuna diocesi, grazie a Dio, può far incontrare persone, luoghi ed esperienze di fede ai piccoli e anche ai grandi.

L’ultimo ingrediente è la missione.

Non l’ultimo per importanza: è anzi l’anima dell’intero racconto di Emmaus composto, potremmo dire, da due viaggi missionari di 11 chilometri ciascuno. Il primo è quello da Gerusalemme a Emmaus, segnato dall’amarezza dei discepoli e dall’accompagnamento da parte di Gesù; il secondo è quello inverso, segnato dalla scomparsa di Gesù e dalla gioia dell’annuncio. Il primo è la missione di Gesù e il secondo è la missione della Chiesa. Perché Gesù sparisce subito dopo il gesto di spezzare il pane? Perché non si sottopone a qualche domanda – ne avranno avute tante i due – o non dà una parola, un mandato, un conforto? Credo che sia perché vuole far capire che la Chiesa non deve fare cerchio attorno a lui, come sarebbe avvenuto inevitabilmente se fosse rimasto lì, ma deve annunciare la bellezza che ha sperimentato. La Chiesa esiste per la testimonianza, per l’annuncio. La ripresa del cammino in piena notte, cosa strana per degli ebrei magari anche stanchi dal viaggio di andata, fa capire che non c’è un tempo «ideale» per la missione, ma è sempre tempo di missione. Nei laboratori di giovedì la parola «missione» è risuonata tante volte e in tutti e quattro i gruppi. La missione dell’annuncio nella fragilità del carcere, sapendo che tutti siamo presi da tanti lacci; la missione dell’annuncio del Vangelo nelle case, che fa sentire la Chiesa più vicina (e ho sentito che qualcuno usa anche il Vangeloclip nelle case, magari insieme a persone malate); la missione dell’annuncio nelle situazioni difficili e svantaggiate, dove raramente risuona il Vangelo; la missione nei territori lontani, come il Ciad, dove le comunità cristiane ci richiamano all’essenziale e ci aiutano a capire che l’abbondanza di strutture e mezzi va posto al servizio dell’entusiasmo e non deve smorzarlo.

L’incontro con esperienze missionarie e la pratica di piccole «missioni» sul territorio fa parte dell’iniziazione cristiana. Educare all’incontro con gli altri non è sinonimo di relativismo, ma di missione, perché la missione cristiana – come ripeteva papa Giovanni Paolo II – è fatta insieme di dialogo e annuncio.

Abbiamo quasi completato la torta.

Devo solo ricordare che tutti e sei gli ingredienti si collocano dentro alla celebrazione eucaristica, «fonte e culmine» dell’intera vita cristiana.

L’esperienza vissuta delle nostre comunità altro non è se non la dilatazione dell’eucaristia domenicale e la preparazione all’eucaristia domenicale. Ogni Messa è una piccola Emmaus, l’incontro con la Pasqua di Gesù. La celebrazione eucaristica ci fa rivivere in un’ora gli ingredienti fondamentali della nostra vita di credenti. Come primo gesto chiediamo perdono, riconoscendo di girare spesso le spalle a Gerusalemme e abbandonare il Signore; poi veniamo avvicinati da lui che, nella Liturgia della Parola, ci fa capire quanto ami ciascuno e come la vita sia sempre accompagnata da lui; nella preghiera dei fedeli gli ripetiamo che resti con noi, perché si fa sera e il tramonto del dubbio e del dolore stende le sue ombre su di noi; nell’offertorio rinnoviamo la disponibilità ad accogliere lo straniero, cioè Gesù e in lui ogni persona svantaggiata e lasciata ai margini; nello spezzare il pane della consacrazione e della comunione i nostri occhi si aprono, perché riceviamo il sacramento dell’amore che dona uno sguardo profondo sugli altri, abituandoci a vederli non come concorrenti ma come amici. E alla fine della Messa siamo spinti a riprendere il cammino, per annunciare anche agli altri la bellezza di credere in Dio.

Nella Messa, viviamo concentrate tutte le dimensioni più importanti della nostra fede.

L’iniziazione cristiana non è perciò primariamente la «spiegazione» della Messa, ma l’esperienza della Messa, che possiamo certo spiegare e adattare in parte anche ai bambini, ma non sostituire con altre esperienze.

È importante la pedagogia verso i sacramenti, ma anche la mistagogia a partire dai sacramenti. È necessario che si imprima nella mente dei piccoli la memoria liturgica domenicale; di qui, nuovamente, la responsabilità dell’intera comunità cristiana. Dobbiamo anche nella liturgia essere i collaboratori della gioia e non della noia.

Il dosaggio e gli strumenti. Metodi, catechismi, sussidi
Una parola finale su quelli che normalmente vengono chiamati aspetti «pratici», ma che però normalmente suppongono quelli cosiddetti «teorici», in realtà fondativi. Gli strumenti e i dosaggi, infatti, sono meno importanti dei cuochi e degli ingredienti e, in buona parte, dipendono da questi.

Non esiste un metodo perfetto e infallibile. In Italia vi sono tre grandi impostazioni. La prima, solitamente definita «classica», è quella del catechismo settimanale in preparazione ai sacramenti, che sfocia nella proposta del postcresima. La seconda, chiamata «catecumenale», prevede dei percorsi di preparazione alla cresima e all’eucaristia, ricevuti contemporaneamente o quasi, seguiti da un successivo tempo di mistagogia. La terza è il «metodo dei quattro tempi» che, modulato in diverse forme, tende soprattutto a coinvolgere le famiglie. Credo che ogni metodo – e ne esistono altri, derivanti dall’intreccio di questi – abbia i suoi pregi e i suoi limiti. È il caso di richiamare il «discernimento comunitario» da parte delle parrocchie, sintonizzandosi il più possibile con gli orientamenti diocesani comuni, qui proposti provvisoriamente sotto forma di «ingredienti», che verranno precisati in modo meno gastronomico nella prossima Lettera pastorale, dando naturalmente poi un tempo di qualche anno per sintonizzarsi, come è avvenuto in altre chiese locali. Sarà importante, allora, accordarci anche sulla famosa questione dell’età della cresima, per evitare le migrazioni catechistiche verso altre parrocchie. Viste le prospettive che stanno maturando nella Chiesa italiana e anche nella nostra diocesi, spero comunque che gradualmente si possa decongestionare la questione cresima/post-cresima; cercheremo di favorire anche nella pratica l’esperienza dei sacramenti come tappa e non come meta. In ogni caso, è importante ragionare non solo su «quanti rimangono» in parrocchia dopo la cresima, ma anche e soprattutto su «come escono» dall’esperienza della cresima quelli che la ricevono.

Vorrei assicurare che gli ingredienti proposti sono comunque a disposizione e i negozi sono vicini a casa, senza ricorrere ad Amazon.

Molte parrocchie hanno già integrato quello che impropriamente veniva chiamato «modello scolastico» – oggi la scuola stessa integra tante esperienze e non è più solo libresca – con una pluralità di esperienze. La «dottrina» è stata già da tempo inserita nel più ampio contesto della «catechesi», che ora è a sua volta collocato dentro il contesto della «iniziazione cristiana». In altre parole, se un tempo la sostanziale omogeneità di valori che il bambino respirava negli ambienti educativi – famiglia, scuola, parrocchia – poteva giustificare la concentrazione dell’iniziazione cristiana nella «dottrina», oggi la rottura generalizzata dell’alleanza tra famiglia, scuola e parrocchia, e l’ingresso di ben altri fattori in gioco – come quelli offerti dal web – rendono ancora più necessario integrare la sola lezione dottrinale dentro ad una pluralità di ingredienti; tenendo presente che la teoria è più efficace e incisiva quando viene dedotta dalla pratica; un’idea entra più a fondo nell’animo del ragazzo se prima viene vissuta esperienzialmente e poi spiegata e criticamente confrontata con il Vangelo.

Da questo punto di vista, mi sembra utile ricordare che l’AC già dalla fine degli anni Sessanta e l’Agesci da metà degli anni Settanta, hanno messo a punto delle metodologie educative importanti: l’AC con la «catechesi esperienziale» e l’Agesci con la «catechesi occasionale/occasionata». La Cei indicò in queste due esperienze dei cammini possibili di iniziazione cristiana. Sarà opportuno anche per questo collegarci meglio, nel prossimo anno pastorale, con le due associazioni.

Da ultimo una parola sui catechismi. In Italia è stato messo in atto un grande sforzo per scrivere i catechismi, dall’inizio degli anni Settanta. Attualmente, dopo alcuni decenni di sperimentazione, si è verificato che hanno dimostrato una certa tenuta i catechismi per i fanciulli (con relativi sussidi), mentre quelli degli adolescenti, dei giovani e degli adulti sono quasi completamente disattesi. Da qualche parte ci si chiede se riscrivere i catechismi. Per ora l’orientamento nazionale non è cartaceo, ma digitale. Si sta ragionando in direzione di una piattaforma informatica nazionale, che possa tracciare dei percorsi bene impostati (per evitare le tendenze o necessità autodidatte di catechisti ed educatori) ma anche flessibili, cioè adattabili da parte delle diocesi.

Proprio in virtù di una pluralità di ingredienti, infatti, ogni Chiesa locale può offrire sussidi digitali e cartacei (testi, foto, film, documentari, canti, etc.) riguardanti la propria storia, i santi locali, le esperienze spirituali, le testimonianze significative, l’arte, e così via. Questa piattaforma dovrebbe sussidiare anche la catechesi post-battesimale (0–6 anni), in ogni diocesi in via di rilancio attraverso gli incontri con i genitori che chiedono il battesimo per i loro figli: tenendo presenti anche i metodi esistenti, come quello del Buon Pastore; la catechesi degli adolescenti e dei giovani, da rinnovare secondo le indicazioni del documento di papa Francesco « Christus vivit» in seguito al Sinodo dei giovani 2018; la catechesi degli adulti, da incentivare sia nei centri parrocchiali, sia nelle case e negli altri luoghi di incontro e di cura, non solo nella pur necessaria organizzazione di eventi, ma anche nell’accompagnamento di avvenimenti «occasionali», lieti o tristi, delle persone e delle famiglie («catechesi diffusa»).