L’omelia del vescovo Castellucci

 
 
Nel giorno in cui la Chiesa universale celebrava l’Ascensione del Signore, il vescovo Benito è salito al Padre. Don Paolo Losavio, che lo ha conosciuto bene e gli è stato vicario generale per tanti anni, lo ricorderà in modo adeguato al termine della Messa. Ma due piccole foto del vescovo Cocchi vorrei scattarle anch’io, che ho potuto frequentarlo molto meno di tanti tra voi. La prima risale al 1980, quando don Benito, come tutti lo chiamavano nella sua Bologna, era vescovo da soli cinque anni. Noi seminaristi del Regionale lo vedevamo solo nelle funzioni in Cattedrale; sapevamo che era stato professore di diritto canonico nel corso di teologia, che appena quarantenne era stato auspicato come vescovo ausiliare del Card. Antonio Poma dal presbiterio bolognese, poi nominato e ordinato, e che abitava in una comunità sacerdotale. Decidemmo quindi di andarlo a trovare e ci trovammo a pranzo con un uomo dalla fede profonda e concreta, di grande spirito e intelligenza, vivace ed arguto, colto e umilissimo, innamorato di Cristo e della Chiesa, che serviva con grande energia. L’altra foto è di pochi giorni fa. La vigilia della sua morte ho potuto pregare per mezz’ora al suo capezzale, insieme ad alcuni parenti ed altre persone amiche. Guardando il suo viso sofferente ma disteso, ho pensato a quante persone, in quindici anni di ministero presbiterale e oltre quaranta di ministero episcopale, avevano incrociato quel volto, ricevuto una parola e un sorriso, raccolto un’attenzione da parte sua. Don Benito non è salito al cielo da solo, ma atteso e scortato da una schiera di amici che gli sono riconoscenti per la sua bontà. Scortato, soprattutto, dai tanti poveri ed emarginati da lui assistiti anche personalmente: sapeva vedere la ricchezza del Signore là dove molti scorgevano solo problemi e miserie. Credo che uno dei servizi a lui più congeniali sia stato quello di guidare, come Presidente, la Caritas italiana per sei anni. La sua attenzione alla dimensione sociale si è espressa, in quegli anni, anche avviando qui a Modena la tradizione della Lettera alla città, in occasione della festa di San Geminiano. E la città gli è riconoscente e lo sente molto vicino.
Non solo la vita terrena del vescovo Cocchi, ma la vita di ciascuno di noi si snoda tra queste due foto: tra le esperienze in cui siamo padroni di noi stessi, siamo pieni di energie e ci dedichiamo attivamente ai nostri compiti, e le esperienze in cui siamo consegnati ad altri e viviamo il tempo della quiete e del silenzio. Anche Gesù ha provato queste esperienze: come ricordano la prima lettura e il Vangelo appena proclamati, quelli della solennità dell’Ascensione, ha attraversato la passione e la risurrezione, la vita e la morte, prima di salire al cielo. Anche lui ha sperimentato la gioia di una vita attiva e la mestizia della consegna ad altri e del silenzio. E ha portato tutto con sé salendo al Padre. Dice Luca che “una nube lo sottrasse ai loro occhi”. La nube è segno del mistero di Dio che avvolge, è il simbolo di un avvenimento impenetrabile allo sguardo umano, di un evento che Dio protegge dalla curiosità degli uomini. Gli ultimi anni della vita del vescovo Benito sono stati velati da una specie di nube che impediva una piena comunicazione con lui, una nube sempre più spessa che lo ha avvolto e come custodito nel silenzio, una nube che gli ha tolto gradualmente la capacità di esprimersi con quella logica che prima padroneggiava così bene, lo ha privato a poco a poco della stessa parola, ma non ha potuto spegnere quello sguardo così luminoso che si trasmetteva dai suoi occhi ed era incorniciato da un largo sorriso. La nube ha avvolto l’intelligenza, la volontà, i movimenti e la parola; ma non è riuscita ad avvolgere gli affetti, che si esprimevano attraverso la vivacità dei suoi occhi, conservata fino quasi agli ultimi giorni. Quella nube, forse, dava fastidio più a noi che a lui, perché colpiva il nostro desiderio di intenderci con le parole e la logica e soprattutto perché interrogava i nostri ritmi frenetici, il mito dell’efficienza e in definitiva il senso stesso della nostra vita.
Gesù è salito al Padre, dice ancora Luca, benedicendo i suoi discepoli. Il vescovo Cocchi, come molti dicono, era “troppo buono”: non era capace di maledire, cioè di dire male del prossimo. Non era incline alla critica: quando dissentiva da qualcuno, una volta espresso chiaramente il proprio pensiero, piuttosto taceva. Capiva molto di più di quello che lasciava intendere. Il suo interesse per i gufi – ne ha raccolto una collezione impressionante, di ogni fattura e grandezza – deriva dal fatto che questo animale è uno dei simboli della saggezza; don Benito spiegava il suo hobby, un po’ strano per un vescovo, ripetendo questo detto: “il vecchio gufo più sapeva e più taceva, più taceva e più sapeva”. E lui spesso taceva, perché era saggio. Alla fine la parola gli è stata tolta, forse perché aveva raggiunto una misura alta di saggezza.
Non era portato ad esprimere rabbia e a sgridare: usava invece l’arma intelligente dell’ironia e della battuta, più rispettosa e spesso più efficace del rimprovero, anche se poteva essere scambiata per un segno di debolezza. Sono certo che l’altro ieri, salendo al Padre, ha raccolto di nuovo tutti in una grande benedizione: anche quelli che lo hanno fatto soffrire. Per questo chiediamo al Signore di imitare i suoi discepoli che, una volta asceso lui al cielo, non si sono rattristati ma sono stati investiti di grande gioia ed hanno iniziato a lodare Dio. Lodiamolo per questo pastore così buono che ha arricchito la nostra Chiesa con la sua testimonianza, con il suo ministero instancabile, con la sua predicazione e il suo sorriso e con il suo silenzio avvolto dalla nube del mistero; silenzio che ha parlato più di tante parole.