“Da voi si attende la testimonianza gioiosa del Risorto”

 
“Io vado a pescare”, dice Pietro. Forse c’è dell’amarezza in questa decisione, che ha il sapore del ritorno alla vita di un tempo. Pietro era stato pescatore; quando Gesù lo aveva chiamato, stava gettando le reti in mare insieme a suo fratello Andrea e si erano sentiti dire: “venite dietro a me”; lo stesso invito rivolto ad altri due dei sette discepoli menzionati nel Vangelo appena proclamato – cioè i figli di Zebedeo – mentre stavano riparando le reti. Ora i discepoli, che non hanno ancora riconosciuto il loro maestro risorto, si dirigono di nuovo sul mare; fanno il percorso inverso: anni prima avevano lasciato il mare per imboccare la strada; ora la strada sembra chiusa e ritornano al mare, al mestiere di un tempo. È svanita l’illusione di cambiare il mondo; meglio rifugiarsi nelle piccole sicurezze di una volta. “Ma quella notte non presero nulla”. Vogliono ritrovare le loro sicurezze e finiscono per trovare il vuoto. Ma il tempo che avevano trascorso con Gesù aveva riempito il loro cuore, che ormai non sopporta più il vuoto: e si fidano di quel personaggio comparso sulla riva, che comanda di rimettersi in mare. È già l’alba e il tempo della pesca è passato: eppure si fidano, forse perché non hanno più niente da perdere.
Marco e Paolo, voi siete oggi in una situazione che può sembrare simile a questa. Il Signore vi manda ad essere pescatori nel mare aperto di un mondo difficile. Un mare torbido, a causa dell’egoismo dei cuori; un mare nella tempesta di tante ingiustizie, violenze e lutti; un mare inquinato da veleni che impediscono a molti di vivere degnamente o semplicemente di vivere. Ma è possibile che il Signore vi chieda di fallire, di immolarvi per una causa inutile e disperata? No di certo: sareste – saremmo, tutti noi cristiani – delle persone che si fanno del male. Gesù vi chiede di fidarvi, pur senza capire tutto, e vi assicura una pesca abbondante. In che cosa consiste questa pesca? Voi sapete che non comporterà un successo mondano, ma la gioia “a caro prezzo e arduo; la gioia che prova chi si dona. Se aveste cercato un successo facile, avreste navigato altri mari. Abbiamo sentito da don Federico che siete persone dotate, molto preparate, e potevate farlo: Marco, tu eri già avviato verso una buona carriera professionale, come ingegnere, e forse anche verso uno stipendio attraente. Paolo, tu eri un ragazzino promettente e la vita ti avrebbe aperto tante possibilità. Forse qualcuno vi avrà detto o avrà pensato: perché spendere la vita in questo modo? La risposta è solo quella di Gesù: la gioia che viene dal farsi dono, interamente dono per i fratelli. In che modo? Le letture che avete scelto vi chiedono di mettervi a fianco dei fratelli – non sopra di loro – a fianco come profeti, ambasciatori e pastori.
Come profeti prima di tutto perché, come dice Ezechiele nella prima lettura, i cuori di pietra diventino cuori di carne. Non sarete voi a trasformare i cuori – non è Ezechiele, è Dio, che darà un cuore nuovo – ma vi dedicherete ad annunciare una parola che scioglie i cuori di pietra, se accolta. Entrambi, come abbiamo sentito, siete innamorati della Parola di Dio e la meditate e studiate volentieri. Sapete bene quindi che al profeta non è dato il potere di rendere convincente la parola, ma solo di farsi conquistare lui stesso dalla parola. Il profeta convince non quando usa sottili argomentazioni o tantomeno toni arroganti, ma quando lascia entrare la parola nel suo cuore, perché da pietra diventi carne. Il profeta non è un chirurgo della parola, ma è un innamorato della parola: e se la studia e la proclama, lo fa come uno che ne è stato conquistato. Un innamorato non conquista l’altro facendo grandi ragionamenti o tenendo lezioni sulla vita di coppia, ma semplicemente esprimendo la gioia di stare con l’altro e cercando il bene dell’altro.
Sarete poi ambasciatori, come dice San Paolo nella seconda lettura. Ambasciatori di una forza che non viene da voi e che, per questo, si chiama “grazia”. Ambasciatori di una forza che fa passare l’uomo dalla vecchia alla nuova creatura. Non siete voi l’origine di questa grazia, ma la celebrerete per tutti gli altri battezzati, specialmente nella liturgia e i sacramenti che presiederete; non sono semplici riti, ma esperienze di accoglienza della grazia, senza la quale la vita cristiana sarebbe un’impossibile tentativo di conquistare la salvezza con le nostre forze. Che siate ambasciatori e non origine della grazia, San Paolo lo esprime così: “lasciatevi riconciliare con Dio”. Non dice: “riconciliatevi”, quasi che fossimo in grado di arrivare a Dio con le nostre energie; dice: “lasciatevi riconciliare”, perché e lui che scende fino a noi con la sua grazia e bussa alla porta del nostro cuore. Voi ricorderete a tutti che la vita cristiana è accoglienza della grazia prima che sforzo per essere coerenti.
Infine sarete pastori. “Pasci”, dice per tre volte Gesù a Pietro nel Vangelo. Il Pietro che Gesù si trova di fronte non è innocente, non è perfetto: è ferito dal recente rinnegamento, ha sacrificato la sua amicizia con Gesù sull’altare della paura. E Gesù, invece di fargliela pagare, di revocargli il mandato, lo rilancia nella missione. Ad una sola condizione: “mi ami, mi vuoi bene?”. Non gli chiede se è pentito e, come sarebbe stato logico almeno in una delle tre domande, nemmeno gli chiede se “li” ama, cioè se è ancora in grado di amare il gregge a cui è mandato. No: a Gesù basta sapere che Pietro ama lui, che Pietro lo vuole ancora seguire. Gesù verifica prima che Pietro sia ancora un discepolo e poi lo conferma come apostolo. Marco e Paolo, nel vostro ruolo di pastori voi sapete bene che rimanete parte del gregge, che siete solo il segno e non i sostituti del buon Pastore; che il vostro apostolato si innesta nel vostro discepolato. Il popolo di Dio si scoraggia quando vede i suoi pastori lontani, distaccati, estranei alla vita ordinaria e quotidiana.
Carissimi Paolo e Marco, il Signore vi invia nel mare del mondo non come eroi solitari – come Atlante che regge sulle spalle da solo il peso del mondo – ma come suoi profeti nell’annuncio, suoi ambasciatori nel dono della grazia e suoi pastori nella comunità; in cammino con un popolo di Dio profetico, sacerdotale e regale, che non attende da voi la soluzione magica di tutti i problemi, ma la testimonianza gioiosa della presenza del Risorto. In questi giorni si è manifestata attorno a voi un’onda di affetto e di stima che forse vi ha stupiti, ma che convoglia l’attesa e la gioia dei vostri cari, di coloro che vi hanno formato e accompagnato prima e durante gli anni del Seminario e del servizio nelle parrocchie, delle tante persone con le quali avete già intrecciato la vostra vita. E anche, permettete, il mio affetto, perché partiamo insieme: io mi trovo a raccogliere dove non ho seminato e di questo sono molto grato al Signore. Questa ondata di affetto vi sarà di aiuto anche nei momenti in cui sperimenterete la fatica di una pesca scarsa, di una profezia debole, di un’ambasciata disattesa, di un ovile difficile da guidare. Se continuerete ad affidarvi al Signore e alla Chiesa, come avete fatto finora, quella gioia profonda che viene dall’alto non sarà mai sradicata dai vostri cuori.
 
 
 

Marco Bonfatti, 32 anni, originario della parrocchia di Formigine, ingegnere informatico, che ha prestato servizio anche nell’unità pastorale di Montefiorino e nella parrocchia della Madonna Pellegrina; Paolo Monzani, 25 anni, della parrocchia del Tempio, diplomato al liceo classico, fino all’anno scorso in servizio presso la parrocchia di Campogalliano.
 
Se ripensiamo ai sei anni di seminario che abbiamo trascorso insieme, ormai vicini al passo dell’ordinazione presbiterale, subito ci vengono in mente tanti volti: il nostro non è stato un cammino fatto soltanto di luoghi fisici (il seminario, le parrocchie, gli oratori), di libri di studio, di banchi di chiesa, ma soprattutto di relazioni e di persone nelle quali abbiamo incontrato il Signore Gesù.
Anche i nostri volti sono cambiati tanto in questi anni così belli e così intensi, in modi che neanche noi ci aspettavamo all’inizio del percorso: per fortuna non concludiamo il seminario tali e quali a come eravamo entrati.
Abbiamo cominciato con grandi diversità tra noi: un giovanissimo diciannovenne appena diplomato e appassionato di letteratura e un ventisettenne ingegnere già lanciato nel mondo dell’informatica; entrambi fiduciosi in questa nuova esperienza, pieni di idealità, ma anche con le nostre chiusure di carattere e i nostri pregiudizi. Non ci conoscevamo ed eravamo stranamente assortiti, ma abbiamo provato a camminato insieme e questa è stata per noi una grande ricchezza, trovando intesa prima in cose molto concrete della vita in seminario (come i servizi comunitari in seminario…), poi nella condivisione di alcuni momenti insieme (i ritrovi in cucinetta, le gite in montagna) e poi anche nel condividere tanti sogni e desideri per il nostro futuro di preti.
La nostra crescita personale e spirituale non è stata un nostro merito, qualcosa che abbiamo creato con le nostre mani: sicuramente abbiamo messo tutte le nostre energie e il nostro impegno in questo cammino, ma è stato Dio a guidarci e sono state le tante persone che abbiamo avuto accanto ad avere creato per noi la possibilità di andare avanti.
Siamo molto grati ai nostri formatori per la cura con cui ci hanno provocato a non rimanere fermi o chiusi, e insieme per la custodia con cui hanno sempre cercato di proporci il passo adeguato al momento in cui ci trovavamo. Ci hanno fatto proposte sfidanti nei cambi di parrocchia e nell’accompagnamento personale, ma abbiamo sempre percepito il grande bene che ci volevano nello spronarci ad andare sempre più in profondità.
Così pure è stato fondamentale per noi l’incontro con la comunità del seminario: forse all’inizio la idealizzavamo troppo, pensando che in essa tutto funzionasse alla perfezione, o non la capivamo abbastanza: gli anni passati ci hanno aiutato a scoprire la realtà quotidiana della vita trascorsa insieme, con tante fatiche e tante lotte (comprese discussioni lunghissime sull’orario della compieta e i tovaglioli da usare a tavola…), ma anche con l’inattesa gioia di scoprire, tra i volti prima sconosciuti degli altri compagni, che avevamo trovato dei fratelli e degli amici con cui condividere la strada e con cui ancora desideriamo camminare.
Tutto questo è stato possibile nel quadro delle comunità che ci hanno accompagnato, le nostre famiglie, le nostre parrocchie e i nostri parroci, dove tante persone ci hanno dimostrato affetto e vicinanza, ma anche ci hanno fatto confrontare con le sfide della vita e le domande di senso che attraversano giovani e adulti.
 
In tanti in questi giorni ci chiedono dove saremo nei prossimi mesi, a quali contesti saremo destinati e noi con franchezza rispondiamo che ancora non lo sappiamo; abbiamo già potuto incontrare il nuovo vescovo, ma ancora non è stata definita la nostra collocazione.
Se questa attesa ci lascia ancora sospesi e non sappiamo rispondere alla domanda “dove saremo?”, cerchiamo di rispondere alla domanda, per noi più importante, “come saremo?”. Chiediamo al Signore di inviarci il suo Spirito perché nelle comunità dove saremo inviati possiamo continuare a vivere quello stile che abbiamo imparato a respirare in seminario: desideriamo impegnarci a custodire le persone che ci saranno affidate, a spenderci al massimo per loro, ad accompagnarle nei loro cammini, come speriamo di essere da loro custoditi e accompagnati nei primi passi di questa nuova avventura.
Siamo molto felici di diventare preti e anche carichi di entusiasmo per questa partenza, ma siamo convinti che le migliori intenzioni non facciano un prete e che un prete non potrebbe mai vivere la propria vocazione se non accompagnato dagli uomini e dalle donne che il Signore pone accanto: non si può custodire se non si è custoditi, non si può amare se non si è fatta esperienza di essere amati. Noi ci siamo scoperti amati dal Signore in questi anni anche grazie a tanti che si sono affiancati a noi per un pezzo di strada e ancora chiediamo alla comunità diocesana di accompagnarci nel cammino, con la preghiera e con il dialogo, perché possiamo vivere il nostro ministero secondo lo stile (il “come”) di Gesù.
Alla gratitudine per tutto quello che abbiamo già ricevuto si accompagna quindi il desiderio e la domanda di essere ancora aiutati a vivere ora il ministero di presbiteri, per trovare nella Chiesa di oggi il modo più evangelico di vivere la nostra missione e camminare accanto a tutti i nostri fratelli verso il Signore Gesù.