«Il Ciad è entrato nel mio cuore»

Il giovane di Santa Teresa ha ricevuto il mandato missionario durante la Gmg diocesana del 24 marzo ed è in Africa dal 10 aprile. «Da questa esperienza – racconta – sto imparando l’importanza dell’ascolto e di donare tempo agli altri»

Un mese per entrare nel clima, meteorologico e umano, del Ciad.
Giacomo Ricci ha fatto un primo bilancio della sua missione nella parrocchia di Abéché, in una lunga lettera nella quale ha raccolto le sue prime impressioni dell’esperienza: «Questo mese – scrive Giacomo – è stato ricco di volti, di presentazioni, di silenziosa scoperta, di viaggi per andare a incontrare le comunità della parrocchia. Infatti mi trovo in una parrocchia grande circa come l’Italia, e i tre padri comboniani che sono in questa parrocchia (Filo, Bernard e David) cercano di visitare 2–3 volte l’anno tutte le comunità del territorio». Il viaggio è uno degli aspetti caratterizzanti della missione ed è proprio viaggiando che il missionario sta conoscendo la cultura locale: «Queste comunità normalmente alla domenica si ritrovano insieme per celebrare la liturgia della parola, guidati da un catechista formato per poter guidare la preghiera domenicale. Quando arrivano i sacerdoti, ecco che si può celebrare insieme l’eucarestia ed è l’occasione per matrimoni, cresime, battesimi e per fare grande festa. È incredibile vedere l’energia e la forza di queste comunità, che riescono a mantenere tutte le loro attività coordinandosi tra loro e affidandosi al responsabile. È bello essere sommersi dalla loro voglia di mantenere vivo questo modo di stare insieme, con il centro in Gesù e nella voglia di condividere quel poco che si ha a disposizione». Nella sua lettera Giacomo ha anche parlato del viaggio da Abéché a Sarh, città del sud del paese, 2 mila chilometri percorsi e 17 ore in strada: «È così che mi scontro per la prima volta con la dura realtà che avevo ascoltato in una riunione del comitato Giustizia e Pace alla parrocchia: il problema degli enfant bouvier (la traduzione di fatto dovrebbe essere bambini pastore) davvero molto diffuso qui in Ciad. Questo fenomeno vede per protagonisti i bambini, che con diverse tecniche vengono allontanati dalle loro famiglie e obbligati a lavorare come pastori di queste mandrie di animali. È così che viaggiando, faccio esperienza concreta di quello che ascolto dalle persone che ho iniziato a incontrare qui nella parrocchia.
Faccio esperienza della terra da cui provengono, scopro il diverso modo rispetto al nord di stare insieme nei villaggi, mangiando ciò che gli dona la terra, vendendo lungo la strada il di più e vivendo in un’unica grande famiglia».


Insieme alle sue due «guardie del corpo», come i padri comboniani chiamano Alain e Oliver che lo accompagnano nei suoi viaggi, Giacomo sta facendo esperienze forti come quella del carcere e sta scoprendo il Ciad, una nazione che sta vivendo un forte cambiamento: «Ho scoperto che il governo ha tagliato internet al paese per evitare alle persone di mettersi d’accordo attraverso i social network per organizzare manifestazioni e proteste contro il presidente Idris Deby. Infatti in questi ultimi anni il paese è stato soggetto a una crisi economica molto forte, e, in più, diverse figure politiche di primo piano si sono rese protagoniste di frodi di denaro dei cittadini aggravando ancor più la situazione. Il presidente Deby ha così deciso di creare la quarta repubblica, concentrando ancor più il potere nelle sue mani». Tra un bicchiere di tè iper zuccherato e una birra Gala, Giacomo non
 sta conoscendo soltanto una nuova lingua e una nuova cultura: «Se c’è una cosa che sto scoprendo qui in Ciad è che, a volte, per cambiare ciò che ti sta intorno e scoprire cose nuove e far scoprire cose nuove agli altri, è sufficiente stare, ascoltare in religioso silenzio i discorsi delle persone che hai vicino, accettare un invito a casa di qualcuno a mangiare qualcosa insieme, lasciare da parte la voglia di andarsi a riposare per fare due chiacchiere con un amico di passaggio anche se il giorno dopo la partenza è alle 5, salutare per strada quegli occhi che ti fissano quasi sbigottiti… Un semplice atteggiamento, quello di stare ad ascoltare l’altro, di perdere tempo che non è un perdere, ma è un donare. Stare. Anche se in quel momento non sei utile lì dove sei, anche se fai fatica a trovare le parole per intavolare un discorso, stare alla presenza degli altri, incuriosirsi della storia dell’altro, cercare di grattare la superficie e scoprire la bellezza del dono che è l’altro per te in quel momento». E conclude: «Questo è il Ciad che sto abitando e che mi sta entrando piano piano nel cuore, fatto di giovani desiderosi di studiare, di famiglie desiderose di aprire le loro porte, di danze che esprimono quello che le persone portano nel cuore».