La Grande guerra finiva cento anni fa: al Tempio Monumentale la Messa presieduta dal vescovo Castellucci

Modena ricorda i suoi caduti

La chiesa di San Giuseppe, Tempio Monumentale dedicato ai caduti, ha ospitato domenica 4 novembre la Messa presieduta dall’arcivescovo Castellucci per il centenario della fine della Grande guerra. La commemorazione ufficiale, con la presenza delle autorità civili e militari, ha avuto luogo, come da tradizione, nella mattinata del 2 novembre a San Cataldo, con la celebrazione eucaristica presieduta dall’arcivescovo, seguita dalla deposizione della corona di alloro alla lapide del Bollettino della Vittoria.

L’armistizio di Villa Giusti, sottoscritto il 3 novembre 1918 fra Regno d’Italia e Impero Austro-Ungarico, entrò in vigore nel pomeriggio del giorno successivo. Terminavano così 41 mesi di guerra «ininterrotta ed asprissima », come recitava, appunto, il Bollettino della Vittoria, firmato dal generale Diaz.

Il conflitto del 1915-18 causò nella provincia di Modena, che contava circa 400mila abitanti, oltre 7mila caduti, per non parlare dei dispersi e degli invalidi. Il capoluogo perse 1089 uomini, su una popolazione che si aggirava sugli 80 mila abitanti. In provincia, il rapporto fu ancora più pesante, perché la proporzione dei richiamati era stata maggiore rispetto alla città, nella quale si concentravano attività industriali e impiegatizie che non potevano essere interrotte. L’epidemia di «spagnola » del 1918, poi, falcidiò un numero consistente di militari e di civili.

L’esultanza per la vittoria e per la fine del conflitto si mescolava a un clima di desolazione. In città sorse il grande Tempio Monumentale, dedicato al suffragio e alla memoria dei caduti, voluto dall’arcivescovo Natale Bruni e inaugurato il 3 novembre 1929 da Vittorio Emanuele III. L’intera provincia è disseminata di monumenti dedicati ai caduti della Grande guerra. Non si era mai visto nulla di simile, prima. Anche perchè non si era mai vista una guerra così: un conflitto «totale», nel quale gli uomini erano stati mobilitati in massa, le donne spesso li avevano sostituiti nel lavoro, i bambini stessi erano raggiunti dalla propaganda.

Alcuni modenesi illustri hanno lasciato una testimonianza della vita al fronte, come Paolo Monelli nel suoCon le scarpe al sole o si sono impegnati a conservarne la memoria, come il pavullese Giovanni Borelli, ideatore dell’Ufficio storico della mobilitazione; altri ne furono segnati profondamente, come Enzo Ferrari, artigliere di montagna, che rischiò la vita a causa di una pleurite e tornò a casa con l’incubo del freddo. Per la massa dei «modenesi anonimi», l’esperienza bellica fu segnata dal terrore dei gas asfissianti, dal rombo dei cannoni, dal crepitio delle mitragliatrici, dalla paura di rimanere sepolti vivi sotto le esplosioni o nelle fosse comuni.

La guerra di trincea riportò in auge lo scontro corpo a corpo, il pugnale, addirittura la mazza ferrata. Fu un’educazione alla violenza, attraverso la quale passò un’intera generazione, che, smobilitata, visse un fortissmo senso di frustrazione e di smarrimento. L’esito, dopo l’inconcludenza demagogica del «biennio rosso» del 1919-20, fu il ventennio di dittatura di Benito Mussolini, uno dei capifila dell’interventismo, che a Modena tenne un applaudito discorso già il 20 maggio 1918, al Teatro Storchi, su invito della «Lega antitedesca».

Dieci anni dopo, il modenese Francesco Luigi Ferrari, ex ufficiale di complemento, esponente politico cattolico esule in Belgio a causa delle persecuzioni fasciste, descrisse così il clima del dopoguerra: «Chi aveva sofferto volle godere; come chi non aveva sofferto volle continuare a godere. Chi aveva obbedito volle comandare; come chi non aveva obbedito volle continuare a comandare. Tutti si sentirono scontenti: gli ufficiali effettivi, cui lo “scoppio della pace” toglieva la speranza di ritrovare nella cassetta d’ordinanza il bastone di maresciallo; i giovani ufficiali di complemento, costretti a ritornare agli studi o alla routine del lavoro quotidiano; i profittatori di guerra, che temevano chiusa l’era delle “vacche grasse” dei contratti ricattati allo stato; i combattenti, che non vedevano realizzarsi nessuna delle ampie promesse di cui erano stati improvvidamente nutriti dalla propaganda di guerra». Gli eventi si sarebbero incaricati di mostrare la lungimiranza della Lettera ai Capi dei popoli belligeranti di Benedetto XV (1917), che, oltre a qualificare il conflitto come «inutile strage», aveva proposto principi di equità per la pace futura. Non fu ascoltato. Il ventennio che seguì il trattato di Versailles (1919) divenne un lungo preludio allo scatenamento del secondo conflitto mondiale.

Oggi sono scomparsi tutti i testimoni della Grande guerra: restano i monumenti ai caduti e le numerose intitolazioni di strade e piazze a Trento e Trieste, al Monte Grappa e al Piave, ai «ragazzi del ‘99». Il ricordo, oramai, è affidato a noi: a noi, i viventi, il compito di ricordare, perchè le sofferenze della generazione che andò al fronte non siano vanificate dal disinteresse di una società abituata a vivere in un eterno presente.