L’auditorium di Mirandola ha ospitato un incontro pubblico con Pablo Trincia, autore di "Veleno"

Vent’anni dopo, nella Bassa le ferite sono ancora aperte

Entrando nel nuovissimo auditorium «Levi Montalcini» di Mirandola, sorto dopo il terremoto del 2012, la vicenda che vent’anni fa fece parlare di una «epidemia di pedofilia» nella Bassa modenese sembra un evento remoto.

Dopo il sisma, in città è stato abbattuto il palazzo Excelsior, dove abitava Francesca, una delle madri coinvolte, che, agli arresti domiciliari, si tolse la vita gettandosi dal balcone il 28 settembre 1997. Diversi protagonisti –loro malgrado– di quella incredibile vicenda non sono più in vita. Uno su tutti, don Giorgio Govoni, il parroco di Massa Finalese, morto d’infarto nello studio del suo avvocato il 19 maggio 2000: la sua assoluzione fu postuma.

Eppure, lunedì sera, all’incontro pubblico La rottura del silenzio, con il giornalista Pablo Trincia, autore del podcast Veleno, è emerso come quelle ferite siano ancora dolorosamente aperte. Ne risulta un ritratto in chiaroscuro di quest’angolo dell’Emilia, polo di eccellenze industriali e agroalimentari e di servizi pubblici all’avanguardia, nel quale è stato possibile sostenere, sulla base delle testimonianze di alcuni bambini, che si compissero sacrifici umani nei cimiteri di Massa e di Finale Emilia. Senza che nessuno se ne fosse mai accorto e senza che si registrassero sparizioni di persone.

E, su questa base, allontanare dalle famiglie 16 minori e avviare un iter processuale, al termine del quale gli imputati sono stati assolti in Appello e in Cassazione. «Nessuno è qui per fare la guerra ai servizi sociali. Siamo qui per parlare di ciò che è successo in questi luoghi –ha detto Trincia, introdotto da Antonella Diegoli – Ancora oggi fatico a comprendere questa storia e mi chiedo perché sia andata così». Sul palco, si sono alternati Antonella Giacco, che dal 1998 non ha più potuto rivedere la sorella Margherita, Lorena Covezzi, con il figlio Stefano, nato in Francia per evitare che venisse allontanato, Roberta Barelli con la figlia Giada, fatta nascere nel mantovano per evitarne l’allontanamento, Federico Scotta, che ha scontato 11 anni di carcere da innocente e perso tre figli, tra cui l’ultimogenita, prelevata in sala parto. «Non sono stati gli anni di carcere, quegli 11 anni che ho fatto, a farmi più male, ma queste accuse –ha sottolineato Scotta– Mi venne detto che se confermavo le accuse avrei potuto rivedere i miei figli».

Più di 400 persone hanno ascoltato in un silenzio irreale, rotto da applausi scroscianti, le testimonianze. Con momenti di grande commozione, come durante l’intervento di Lina Marchetti, 85 anni, voce malferma ma parole molto chiare nel rievocare quando le vennero portati via figli, marito e nipoti. «Mi chiedete come abbiamo fatto a vivere così se siamo innocenti? –ha concluso – Perché abbiamo molta fede, così il Buon Dio ci sostiene con la sua grazia». É intervenuta anche Selena Bonfatti, che, divenuta madre a sua volta, ha appena ritrovato sua madre, Daniela. «Tornare a casa è stato un po’ come ricominciare a vivere», ha detto, affermando di essere stata forzata ad ammettere di aver subito abusiinesistenti nella speranza che così avrebbe potuto rivedere i genitori.

Concludendo lo spazio destinato alle testimonianze personali, Trincia ha affermato: «Non è una campagna contro nessuno, è solo un tentativo di riportare queste storie sui giornali perchè venga fatta chiarezza. Perchè questi professionisti non si confrontano con questi ragazzi? Io, il mio lavoro l’ho fatto; adesso passo la palla a loro». Netto l’intervento dell’avvocato Patrizia Micai, legale di alcune delle famiglie: «Non si dica che le revisioni non le otterremo mai: avremo le revisioni e il risarcimento danni». Micai ha narrato la oramai pluridecennale esperienza maturata seguendo questo caso, affermando: «Quando ho preso in mano il processo ero giovane, ora non più. Spero, prima di morire, di veder fatta chiarezza». Sono intervenuti anche lo psichiatra Camillo Valgimigli e la psicologa Chiara Brillanti.

«Pablo, con Veleno, ha rotto il silenzio su questa vicenda. Ma soprattutto ha rotto lo schema mentale della gente, che è abituata, ingiustamente, a pensare: “Vedrai che qualcosa sarà successo” –ha sottolineato Valgimigli– Adesso bisogna che non ritorni il silenzio.

Dietro questa vicenda ci sono degli interessi, delle carriere, delle politiche». Chiara Brillanti ha analizzato le procedure che furono messe in campo nel 1998, definendole «procedure d’ascolto dei bambini pericolosissime, che alimentavano vissuti traumatici che non avevano nulla a che vedere con gli abusi» e ricordando al pubblico in sala: «Queste persone soffrono più oggi di prima: il dolore non è stato sotterrato e non lo sarà mai». Al termine della serata è stata lanciata una raccolta firme per l’intitolazione di una via di Massa Finalese a Oddina Paltrinieri, scomparsa nel 2014, che contribuì in modo determinante alla documentazione del caso, come fece anche don Ettore Rovatti, autore di un dettagliato volume dedicato a don Giorgio Govoni, al quale Trincia ha reso gli onori: «Mai vista una cosa così meticolosa. Senza questo libro, non esisterebbe Veleno ». L’intervento di due madri liguri, che hanno denunciato di essere vittime di casi analoghi, fa pensare che l’inchiesta sia destinata ad allargarsi.

L’avvocato Micai ha lanciato un appello al sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, eletto nella Bassa:«Abrogate l’articolo 403 del Codice civile, del 1942, che consente l’allontanamento dei minori dalla famiglia, per ragioni di incolumità, senza processo». La triste vicenda, che ha scosso famiglie, paesi, relazioni, affetti e persone, a vent’anni di distanza rimane drammaticamente aperta.