Il linguaggio del web e la libertà del Vangelo

Due giorni di visita a Modena di mons. Domenico Pompili, direttore dell’Ufficio nazionale per le Comunicazioni sociali. Ha incontrato prima alcuni giornalisti dei media locali: tra le domande emerse, quelle su Chiesa e Ici, un grande equivoco mediatico, sul quale qualcuno ha spinto, anche in malafede, sui presunti ‘giochi di potere’ all’interno della Chiesa, e sull’attesa della politica (e viceversa) nei confronti delle posizioni della Cei.
 
Nell’incontro aperto al pubblico, mons. Pompili ha ricordato che il cambiamento dei linguaggi non è mai solo tecnologico, ma anche antropologico, cambia la cultura, il modo di vivere, pensare e relazionarsi, quindi incide nell’esperienza di fede. Un miliardo di persone, non solo giovani, sono oggi in rete, che è quindi il continente più popolato. Il binomio silenzio/parola proposto da Benedetto XVI nell’ultimo messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali vede nel silenzio non il vuoto, ma la capacità di ascolto e nella parola, quella del web, non solo rischi, ma anche risorse ed opportunità.
 
La rete diventa quindi il luogo in cui far emergere la grandi domande, da cui nascono la ricerca e la fede. Per i giovani, definiti in modo negativo come generazione senza futuro, dai legami fragili, persa nella rete, che non è un mondo fantastico. La virtualità indica l’assenza di corpo, ma non di verità, e no c’è contrapposizione con la vita quotidiana.
I giovani ‘ ha sottolineato mons. Pompili ‘ hanno ereditato un mondo fatto di individualismo esasperato, con la religione della tecnica, la colonizzazione da parte dell’economia dei mondi di vita e un’ipertrofia del consumo. Gli adulti sono ‘lattanti psichici’, che non conoscono l’alternanza dare/ricevere, fermi alla condizione in cui tutto è dovuto. La società è ipereccitata, vive una forma di dipendenza da cose sempre diverse. La domanda di senso è evasa o accantonata.
Si vivono però dinamiche di neo-tribalismo, con tensioni tra lo stare insieme con armonia e l’espressione di sé, tra il raccontarsi e monitorare e la privacy. Emerge il desiderio di dare priorità alla relazione, al desiderio di stare insieme. E si manifesta il bisogno di prendere la parola, di raccontarsi e curiosare, di trovare familiarità ed aggregazione.
 
Quello che impariamo dai giovani e dalle dinamiche del web 2.0 è fatto di rispetto dell’altro, del non imporsi, della capacità di condividere e scambiare, di reciprocità che esce dalla delega. I giovani insegnano a sperimentare i limiti dei modelli presenti, ed a leggere i tempi, mentre gli adulti possono insegnare ai giovani a non rimanere prigionieri della rete, ad evitare il ‘massaggio’, che non permette di capire gli effetti di quanto accade intorno.
 
I rischi psicologici sono l’inadeguatezza per il proprio profilo, il bisogno di contatto perpetuo, l’esagerazione dell’identità, il timore del silenzio digitale, il pericolo di ridurre tutto alla rete, un eccesso di esteriorità. Dal punto di vista delle relazioni si rischiano una stima eccessiva per la comunione tecnologica, contatti e disconnessioni facili e la confusione dell’intimità con la prossimità: il dato tecnico insomma sostituisce la fatica dell’incontro. La connessione, viceversa, permette a manutenzione delle relazioni.
La mancanza del corpo è compensata da immagini grandi, che evidenziano spesso il contatto. Il corpo è esibito e riparato insieme: è il modo in cui ogni persona prende contatto con lo spazio, e la dimensione spaziale nella rete è invece assente.
Dobbiamo parlare quindi di coeducazione, di un’alleanza intergenerazionale che valorizza la capacità di relazione dei giovani e la responsabilità degli adulti (è adulto chi sa curarsi della crescita dell’altro).
Dalla filosofia hacker impariamo invece la creazione, la libertà e la responsabilità, parole necessarie per crescere oggi in un cammino di fede. L’uomo ha il compito di portare a compimento il dono di Dio e la rete è il luogo in cui far risuonare le grandi domande: è uno spazio da abitare con libertà e responsabilità.
 
 
 
Il secondo intervento di mons. Pompili è stato davanti ad un uditorio, non foltissimo ma molto attento, di sacerdoti, con i quali il tema era ‘Tecnica, verità e libertà’ il sottotitolo: ‘Perché ci aspettiamo più dalla tecnologia che dalla reciprocità’. Anch’esso ha preso il via dal messaggio del Papa, evidenziando la relazione virtuosa tra silenzio e parola, dove la verità sta al silenzio come la tecnica alla parola.
Le mutazioni tecniche sono più radicali e pervasive, tanto da chiedersi se non sia la tecnica ad usare noi, Due le correnti di pensiero: la prima, secondo la quale la tecnica ci farà liberi, come una nuova fede da coltivare, perché seduce, annulla le distanze e crea comunicazione: è la sfida prometeica dell’uomo che pensa di trovare in sé il significato di tutto. Il secondo invita a trovare una via per congiungere tecnica ed umanizzazione: questa è la nostra sfida quotidiana. I media, già per McLuhan, non sono solo strumenti, ma hanno creato un ambiente in cui siamo immersi: come estensione delle nostre facoltà, hanno cambiato i rapporti con il mondo.
Con l tecnologia sempre più facile e veloce, si perde il confine tra ciò che è fisico e ciò che è virtuale, la mutazione antropologica non è solo dei giovani. Senza una lettura critica si rischia di specchiarsi nei fenomeni senza a capacità di uscirne. Una posizione di cautela incuriosita ci può far comprendere quanto la tecnica rivela dell’uomo.
Nell’era ipermediale si dissolve lo spazio geografico, cambia la percezione del tempo, muta la forma mentis. L’approccio alla conoscenza è più emotivo, si fa sull’abduzione: come valorizzare questo presente, con opportunità e rischi? secondo una via interpretativa la tecnica ha in sé la verità: ha conosciuto nel XX secolo un’accelerazione senza precedenti, con il rischio di astrarre dal fine il solo mezzo, per massimizzare il profitto senza curarsi dell’uomo. L’agire, non il fare fine a se stesso, ci rende uomini. Il non essere aggiornati causa senso di inadeguatezza. La tecnicizzazione totale ha per effetti negativi una fiducia cieca e magica nella tecnica, quasi una forma di idolatria e l’illusione che la tecnologia produca in automatico la democrazia. La rete genera però un coinvolgimento a basso tasso emotivo, è un collettore di istanze diffuse, ma non produce rivoluzioni. La tecnologia è un’arma a doppio taglio, se il dispositivo dispone di noi.
Nella Caritas in veritate è lo stesso Benedetto XVI ad indicare una strada, con una moderna riflessione   di dottrina sociale, parlando di una nuova sintesi umanistica che concilia fede e tecnica, silenzio e parola. Nella tecnica si disvela qualcosa che va oltre e produce meraviglia, ma non può bastare a se stessa.
Il cambio di prospettiva sta nel non considerare la tecnica un mondo chiuso, ma un linguaggio: è il luogo della verità dell’uomo, in cui esso si svela. Apre nuove possibilità di percezione e conoscenza, ci fa conoscere diversamente la realtà. Sulla rete appaiono il bisogno di socialità e quello di essere riconosciuti per sé. la tecnica è insieme luogo del disvelamento, che va interpretato, e di un nuovo fare, fatto di coltivare e custodire. E diventa importante, a sorpresa, il poeta, colui che è capace d meraviglia, che sa far cantare e cose, che ha a cuore l’intero e se ne prende cura.
Noi non possiamo evitare questo mondo, nemmeno presidiarlo né contaminarlo: il nostro compito è abitarlo, come è stato fatto per il territorio geografico, immergersi in esso preservando la capacità di introdurre la nostra fede, che genera uno slancio verticale in un mondo orizzontale. La tecnica non è quindi un dispositivo, ma un dono che occorre saper leggere profondamente, non un insieme di oggetti, ma una parte dell’agire, con cui l’uomo esercita conoscenza, libertà e responsabilità: questo la rende compatibile con la verità, La libertà preserva la tecnica dall’assolutizzazione e consente di non rassegnarsi all’epoca delle passioni tristi. La fede allora rafforza la capacità dell’uomo di sottrarsi alla presa della tecnica ed introdurre la variabile umana. Non basta però stare sulla rete, se chi fa la Chiesa non è di per sé interessante e credibile. La libertà sta nel custodire la tecnica, assegnandole un significato umanizzante: dobbiamo vivere questa stagione non con estraneità, , ma con la prossimità del pastore: fatta di cura, conoscenza e vicinanza, introducendo in questo linguaggio la libertà del Vangelo. Liberare la domanda è la strada per mettersi alla ricerca di risposte. La rete dunque non è il luogo della nuova evangelizzazione, ma un luogo di transito, ci fa conoscere chi è l’uomo.
 
In allegato: le relazioni e le schede di mons. Pompili