L’omelia dell’Arcivescovo Castellucci durante l’ordinazione sacerdotale di don Pietro Valdré, celebrata sabato 1 giugno a Nonantola

La gioia della Chiesa locale per don Pietro Valdré

«Non spetta a voi conoscere tempi o momenti». Le parole di Gesù risorto ai discepoli, riportate nella prima lettura, confermano l’impressione diffusa che uno degli enigmi più impenetrabili sia quello del tempo. Un vero e proprio mistero, indagato da millenni e mai risolto.

Sant’Agostino, universalmente riconosciuto come una delle intelligenze più geniali tra quelle che hanno studiato la questione del tempo, scrive: «Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se lo voglio spiegare a chi me lo chiede, non lo so» (Confessioni XI,14,17). Qualcosa però, anche per merito di Agostino, siamo riusciti a capire: ad esempio, abbiamo scoperto che esistono due orologi diversi per misurare il tempo, perché esistono due dimensioni differenti del tempo. C’è il tempo cosmico, registrato dall’orologio, e c’è il tempo interiore, registrato dal cuore.

L’orologio misura la quantità: secondi, minuti, ore, giorni; è il tempo del cronometro e del calendario. Il cuore misura la qualità: l’intensità delle esperienze, la loro incidenza nella nostra vita. I due strumenti, l’orologio e il cuore, battono il tempo diversamente. Un quarto d’ora è composto di quindici minuti; ma è un tempo brevissimo se trascorso insieme a una persona la cui compagnia è gradita e piacevole e diventa invece lunghissimo se trascorso sotto il trapano di un dentista, oppure ad ascoltare una predica come questa. La seconda lettura parla ancora del tempo, dandogli però uno spessore diverso: la Lettera agli Ebrei dice infatti che Cristo è apparso «nella pienezza dei tempi».

Che cos’è la «pienezza dei tempi»? Non certo il tempo cronologico che, essendo scandito regolarmente, non può avere alcuna pienezza: è sempre uguale a se stesso. Ma nemmeno il tempo del cuore, perché un’esperienza intensa, se è brutta lascia un senso di colpa o di tristezza; e se è bella, lascia un senso di nostalgia e di rimpianto; in ogni caso quindi un certo «vuoto» e mai una «pienezza». Il tempo umano non è capace di darsi pienezza da solo. La «pienezza dei tempi» è possibile solo se l’eterno entra nel tempo e ne spezza il flusso; allora il tempo dell’uomo prende senso, altrimenti continua a scorrere come un fiume e a travolgere ogni cosa. Il motivo per cui la seconda lettura insiste sul fatto che questo evento è accaduto «una volta sola » sta proprio nel fatto che la visita di Dio ha rotto il cerchio del tempo; non possiamo più dire che la storia è una ruota che gira, un continuo ripetersi di avvenimenti; ormai ce n’è uno che dà senso a tutto, che orienta il tempo dell’uomo.

Con Cristo l’eterno è entrato in una precisa cronologia, misurata dal calendario; anzi, ha perfino avviato un nuovo calendario, distinguendo un tempo prima di Cristo e un tempo dopo Cristo. Ma soprattutto con Cristo l’eterno è entrato nel tempo del cuore, ci ha liberato dalla stretta soffocante della storia, ha aperto lo spiraglio dell’eternità nello scorrere dei nostri giorni. E così il «terzo giorno» di cui parla il Vangelo di oggi, il giorno della risurrezione, seguito dai «quaranta giorni» ricordati nella prima lettura, altro non sono se non il segno dell’eterno nella nostra storia. La risurrezione di Gesù non è solamente il simbolo di una nuova vita; è il rovesciamento della morte; è la vittoria dell’eterno sul tempo. Se Cristo non fosse realmente risorto nel suo corpo, vincerebbe ancora il tempo e quindi,alla fine, trionferebbe la morte. Che il suo corpo sia poi salito in cielo – come dicono la prima e la terza lettura – cioè che, trasfigurato, sia ritornato nel grembo del Padre, comporta una certezza: siamo degni di appartenere alla famiglia di Dio. Un corpo trasfigurato, quello del Figlio, ha indicato il nostro traguardo: l’eternità. Non solo l’eterno è entrato nel tempo, ma il tempo è entrato nell’eterno, è uscito dalla propria gabbia per dimorare in Dio.

Caro Pietro, mi sembra che oggi la parola del Signore ti chieda di diventare, con l’ordinazione presbiterale, custode della «pienezza dei tempi». Chi dedica la sua vita all’edificazione della Chiesa nel ministero, non desidera altro che proclamare la «pienezza dei tempi».

Sarà frequente la tentazione di lasciarti afferrare dall’ansia dell’orologio, perché gli impegni richiesti a un presbitero sono molti: te lo dico subito, così non potrai lamentarti che non eri stato avvisato. E vivrai anche la tentazione di cercare un tempo del cuore che non sia quello di Dio e della Chiesa: un tempo di “relax”, di ristoro, vissuto però non come recupero di energie pastorali, ma come una sorta di alternativa alla dedicazione pastorale. Ricordati – e lo dico prima ancora a me, non certo immune da queste tentazioni – che «la pienezza del tempo» la può dare solo il Signore, solo l’eterno che si innesta nelle nostre giornate. La «pienezza del tempo» è arrivata sotto la forma del dono: l’umanità poteva solo sperare, non certo pretendere, che Dio entrasse nella storia. Lo sperarono gli antichi filosofi e poeti pagani; lo sperarono soprattutto i profeti di Israele. Ma nessuno lo pretese: e fu un dono gratuito. Non pensare mai di perdere tempo se lo avrai donato. Il tempo speso gratuitamente sembra perso, ma in realtà è il solo tempo «pieno». Per questo i santi e gli amici di Dio vivono un’esistenza così intensa, così piena, da sembrare impossibile in una vita sola. I santi vivono come delle esistenze concentrate, anche quando sono brevi.

Perché, come dice San Paolo di se stesso, non sono più loro che vivono, ma Cristo vive in loro. Più il nostro tempo si fa dono, più sarà pieno e bello, gioioso e intenso. Questo augurio, a nome della nostra Chiesa che da oggi servi a tempo pieno, ti rivolgo con affetto: che tu sia sempre custode della «pienezza dei tempi».

+ Erio Castellucci

Ecco alcune fotografie dell’ordinazione e della prima messa celebrata da don Pietro